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....religiosa in linea con l'insegnamento e l'esperienza della democrazia americana. Ricordo, a questo proposito, di aver posto la questione a Gabriele De Rosa, quando ero giovane e la mia attività più proficua consisteva nell'approfondire le questioni storico-culturali. Allora desideravo indagare il retroterra culturale di Sturzo e di conseguenza la natura della democrazia americana che in Tocqueville è in simbiosi con l'ispirazione religiosa. Tocqueville sostiene che quando l'impegno politico ha una motivazione alta e pure alta è l'ispirazione religiosa, gli obiettivi non sono mai deludenti. Sturzo ha colto questa intuizione e l'ha resa concreta. La grande novità del popolarismo non è il "partito cattolico". Non dimentichiamo che Sturzo era in forte polemica con Murri e con quanti s'ingegnavano a prefigurare una costruzione di tipo integralista, benché spostata a sinistra. Sturzo invece fonda un partito laico ed elabora una cultura civile, valida per credenti e non credenti, tanto che al Ppi possono aderire anche coloro che non si dichiarano cattolici. Ciò premesso, vediamo che De Gasperi s'inserisce in questo filone e lo sviluppa. Facendo i conti con esigenze nuove, legate alla edificazione di un assetto democratico tutto da inventare dopo la fine drammatica del fascismo, opera nel segno dell'affermazione di un "partito nazionale" in grado di sostenere l'impianto democratico della nuova Italia. L'unità dei cattolici non è un fatto ideologico, ma l'espressione di un'unità più ampia e più robusta, che chiama in causa tutte le energie morali di cui il Paese dispone per dare, grazie ad esse, basi solide alla democrazia e alla libertà.
Quanto alla testimonianza di Ossicini, non so cosa dire. Poiché De Gasperi non è più tra noi, manca evidentemente l'interlocutore che possa asseverare questa testimonianza. Fatico a pensare, tuttavia, che De Gasperi potesse già individuare a metà degli anni cinquanta l'inevitabilità della rottura della Dc e la sua scomposizione in due formazioni distinte, una di destra e una di sinistra. Lascio ad altri il compito di accertare l'attendibilità di questa vera o presunta profezia degasperiana...
(Comunque, nell'articolo che segue questa intervista, Ossicini ha inteso ribadire le affermazioni di De Gasperi, n.d.r.)
Da parte mia, interpreterei le cose in modo diverso. Credo che De Gasperi avesse gli elementi per ritenere che nel momento in cui l'adesione alla democrazia si fosse generalizzata in Italia e fosse stata da tutti condivisa, non si sarebbe posta la necessità di conservare il "partito dei cattolici". Premesso questo, è però necessario ricordare che questo modello di partito fu voluto e imposto da De Gasperi, non certo dalla Chiesa. La rilettura dell'esperienza del ‘48, ci fa riflettere sul fatto che l'episcopato era diviso, che in molti non erano d'accordo. De Gasperi chiede l'unità politica dei cattolici, ma all'interno di un processo di libertà, non intorno ad una scelta conservatrice o clericale. Si contrappone alla sinistra, ma rompe a destra; si allea con le forze democratiche, non con tutti quelli che servono a far numero.
A giudizio di molti commentatori, interessati a collocare lo statista trentino nel Pantheon del centro destra, la Dc di De Gasperi è sostanzialmente il partito della contrapposizione netta al Partito comunista. Dunque, si riassume in questo la proposta del leader democristiano?
Niente affatto. Per molti aspetti, la destra è il vero bersaglio dell'iniziativa degasperiana. La Dc si scontra con la sinistra soltanto il 18 aprile del 1948 e in quel caso si verifica una grande battaglia per la democrazia che vede trionfante lo scudo crociato. Di tutto questo ho un ricordo preciso perché, pur non votando, ho fatto quella campagna elettorale. Alla vigilia delle elezioni, la previsione era che la Dc non fosse maggioranza, ma che fosse la sinistra a riscuotere i consensi maggiori. Basta riandare alla lettura dei giornali di quel periodo per rendersi conto che su queste previsioni già era stato aperto un dibattito tra i costituzionalisti. Eh, sì, allora in Italia c'erano i costituzionalisti, non i politologi o i sociologi, a discettare su chi avesse il diritto di ricoprire una carica di governo, se il rappresentante del partito più forte, oppure la personalità politica che con ogni probabilità avrebbe ottenuto la maggioranza in Parlamento. Fu questa ultima tesi, alla fine, a prevalere. De Nicola, come Capo dello Stato, aveva composto e definito le regole procedurali per l'affidamento dell'incarico. Le consultazioni, lungi dall'essere quel rito inconcludente cui in seguito abbiamo spesso assistito, servivano al Capo dello Stato per acquisire elementi di valutazione, e prevedere con una certa sicurezza, il nome che in Parlamento sarebbe uscito vincente.
Vorrei anche far presente che De Gasperi, dopo la guerra, non escludeva a priori una alleanza con i comunisti. Nel discorso che tenne nel 1944 al teatro Brancaccio di Roma, sostenne che il Pci era portatore di ideali e programmi che non confliggevano con la visone politica dei democratici cristiani. Se Marx aveva parlato in nome del proletariato, De Gasperi ricordava a Palmiro Togliatti che già duemila anni prima un messaggio di speranza per tutti gli esclusi della terra era risuonato in Palestina: Gesù, in questo senso, poteva essere considerato il primo proletario della storia.
In seguito, però, si rese conto che la situazione internazionale impediva la prosecuzione dell'alleanza con i comunisti. Fu dunque la politica estera il motivo dirimente che provocò la rottura con i partiti di sinistra. Sarebbe toccato in seguito proprio a Enrico Berlinguer, in una intervista divenuta famosa, il compito di dichiarare che si sentiva più libero, stando in un Paese dell'Occidente, grazie alla protezione assicurata dal Patto Atlantico. Non fu un arbitrio il richiamo alla centralità delle alleanze internazionali, né fu sbagliata, pertanto, la linea di De Gasperi.
È noto che subito dopo il 1948 De Gasperi rifiutò l'ipotesi di mettere fuori legge il partito comunista, come fece invece Konrad Adenauer in Germania. C'è chi sostiene, a questo proposito, che la messa al bando dei comunisti tedeschi, abbia spinto il partito socialdemocratico a coprire quel vuoto e quindi ad organizzarsi come unico, grande partito della sinistra. Sull'altro versante, la Cdu avrebbe assolto ad una analoga funzione, diventando a sua volta il perno fondamentale dello schieramento moderato. Di qui, in sostanza, la nascita e lo sviluppo di un bipartitismo solidamente strutturato.
Allora, se in Italia De Gasperi avesse accettato di mettere fuori legge il partito comunista, avremmo oggi un bipolarismo più efficiente?
In realtà, credo che la situazione della Germania di allora non fosse paragonabile a quella del nostro Paese. Intanto da noi, si era formato un Partito comunista molto forte - in Germania, invece, era appena al tre per cento - e poi, all'Italia, sarebbe stata risparmiata l'umiliazione della divisione territoriale. La nascita della Repubblica Democratica Tedesca, imposta dall'Armata Rossa, non poteva non turbare profondamente la coscienza democratica della parte "libera" del Paese. Nella Germania occidentale, alla fine, il Partito comunista fu piuttosto messo fuori legge (ovvero escluso dal Parlamento) per effetto delle norme sullo sbarramento elettorale, mentre il Partito socialdemocratico aveva ben altra consistenza e quindi forza sufficiente per assumere la guida della sinistra nel suo complesso. In Italia, si è verificata una situazione esattamente opposta: indebolitosi nel ‘48, il Psi avrebbe lasciato al Pci la funzione di maggiore interprete delle istanze del movimento operaio. Questa peculiare circostanza ha spinto il Pci, con l'andar del tempo, ad acquisire le caratteristiche di un grande partito socialdemocratico, in qualche modo simile alla Spd.
Fin qui le differenze nel confronto tra due Paesi vicini e diversi come l'Italia e la Germania. Ma, anche solo guardando alla nostra esperienza nazionale, ritengo sbagliate le argomentazioni usate per spiegare il cosiddetto ritardo nella costruzione della democrazia dell'alternanza. Si tende a semplificare, sostenendo che nell'arco di quasi un cinquantennio il bipolarismo in Italia non sarebbe mai esistito, essendo stato introdotto solo di recente con la legge elettorale maggioritaria.
Nulla di più falso. Dal 1948 al 1968 c'è stata una vera competizione bipolare, si sono contrapposte due coalizioni con programmi politici diversi. Una ha vinto, l'altra no. Il sistema è andato in crisi nel ‘68, quando cominciò a prevalere la tesi secondo la quale l'alleanza di centro-sinistra era destinata, più o meno a breve, a lasciare il campo alla ripresa della collaborazione tra i partiti della sinistra. Se si fossero verificate determinate condizioni di libertà e di solidarietà, sarebbe stata ipotizzabile la formazione di una alternativa socialista. Ma tempi e modi di questa alternativa erano nebulosi: pesava soprattutto il motivo ambiguo e velleitario del progetto. Il rapporto con la Dc scadeva, nella lettura che ne davano i socialisti, a fatto contingente e ciò nondimeno obbligato, essendo tuttavia strategica la ricerca di "equilibri più avanzati" in funzione dell'alternativa. Ecco, non sarebbe corretto asserire che la rottura dell'equilibrio politico del centro-sinistra sia da imputare alle responsabilità della Dc.
Le difficoltà non furono superate né con la stagione della solidarietà nazionale, finita tragicamente con l'assassinio di Moro, né con i successivi governi di pentapartito. Alla domanda di cambiamento si sarebbe continuato a rispondere con un sovraccarico di astuzie e tatticismi. Il problema sembrava la conquista del potere, quando piuttosto la domanda principale, antecedente a qualsiasi altra, era l'intesa sul riordino delle regole e perciò sulla individuazione delle nuove modalità di funzionamento della democrazia. Ricordo che tornati al governo, negli anni Ottanta, i socialisti avrebbero caratterizzato la loro posizione in materia di riforma elettorale con un sistematico rifiuto della proposta avanzata dalla Dc e su cui, come è noto, Ruffilli aveva speso tutte le sue energie. Sarebbe interessante conoscere quale sia oggi l'opinione di Giuliano Amato, essendo all'epoca tra coloro che più s'impegnarono nel tentativo di bloccare la riforma elettorale, fino ad arrivare a definire il progetto come una nuova "Legge Acerbo".
Persa quell'occasione, anche per la complicità del Partito comunista, il sistema era destinato ad avvitarsi su stesso. Il turbine delle inchieste giudiziarie spazzò via tutto, ma anche senza "Mani pulite" avremmo assistito al crollo del sistema. Di questo, ero e rimango assolutamente convinto.
C'è sempre di mezzo una riforma elettorale! Anche la stagione del centrismo finisce, nel 1953, con la sconfitta sulla cosiddetta "legge truffa". Pare che la definizione sia da attribuire a Stalin, coniata nel corso di un colloquio con Nenni. Tornato in Italia, questi si premurò di divulgarla. I comunisti, insieme ai socialisti e ad alcuni settori laici, si batterono contro quella legge voluta da De Gasperi. Lo scontro fu aspro e la legge non scattò, perché i partiti coalizzati non superarono il 50 più 1 per cento. Oggi si dice, da più parti, che fu una occasione mancata per il Paese...
Quel periodo lo ricordo bene, perché già facevo politica. Con altri amici ero alla Cattolica, quando il governo pose la fiducia proprio sulla legge elettorale. Tra di noi ci fu una discussione molto serrata. Io ero convinto che non si dovesse chiedere la fiducia, perché il governo fa ricorso a questo strumento di verifica per gli atti governativi, non per una norma fondamentale come quella sulla legge elettorale. La proposta di riforma cadeva in un contesto storico e politico tutto particolare. Nel 1950, De Gasperi aveva varato la riforma agraria che fu un atto di coraggio enorme, perché incideva sul diritto di proprietà e, su questo punto delicato, sfidava l'atteggiamento e il modo di pensare della società italiana. De Gasperi, in realtà, mirava ad allentare la pressione e il condizionamento di una destra che coagulava i malumori e le rimostranze di una parte non indifferente della società di allora. Se analizziamo i risultati elettorali dopo il 1948 e ci soffermiamo, per esempio, sulle amministrative che ne seguirono, ci rendiamo conto che il pericolo per la Democrazia cristiana non proveniva tanto dalla sinistra, che non registrò aumenti di consensi, quanto dalla destra che, al contrario, si andava ingrossando. Si stava, di conseguenza, aggravando il rischio di un indebolimento della democrazia.
In un clima come quello, aggravato dalle reazioni un mondo cattolico sempre più attratto dall'idea di favorire la formazione di un blocco moderato indistinto, purché chiaramente anticomunista, si viene allora ad ipotizzare una legge elettorale che implicitamente serve a contenere il rischio di espansione della destra. Forse la legge sarebbe passata, se non ci fosse stata la defezione di alcuni ambienti liberali. Il mancato apparentamento della lista Corbino impedì, infatti, il raggiungimento del quorum richiesto.
Non so se la definizione di "legge truffa" sia stata coniata da Stalin, ma credo non sia da sottovalutare che la comunicazione semplificata e fatta di slogan suggestivi non è propriamente un'invenzione di Berlusconi: il Partito comunista l'aveva già scoperta e utilizzata agli inizi della nostra vita repubblicana. Tant'è che parlare di "legge truffa" fu un modo assai efficace, benché mistificante, per contrastare una riforma che in sostanza tutto era fuorché una truffa.
Comunque, alla domanda se fu un bene o un male che quella legge elettorale naufragasse, risponderei che tutto sommato fu un bene, perché sollecitò le forze politiche a misurarsi, come appunto disse Moro, con le esigenze di un nuovo equilibrio politico. Se nel 1953 si fosse raggiunta una maggioranza larga, probabilmente il centro-sinistra non si sarebbe mai fatto.
La scossa si avvertì anche nel mondo cattolico...
Sì, la sconfitta di De Gasperi comportò l'apertura di una riflessione più coraggiosa nel mondo cattolico. Il venir meno della maggioranza centrista fece sì che persino autorevoli esponenti della Gerarchia - ricordo l'intervento di un teologo allora molto influente - si interrogassero sulla possibilità e sui limiti della collaborazione con i socialisti. In seguito, all'interno della Democrazia cristiana, si vennero formando gruppi e movimenti che presero le mosse dal problema politico innescato dalla sconfitta elettorale e dall'esaurimento della formula centrista. Effettivamente in Italia, nel periodo che va dal 1948 al 1968, abbiamo assistito ad una evoluzione politica straordinaria, con una grande mobilità negli assetti e negli equilibri di potere del Paese. Dopo, non è stato più così. Dopo abbiamo avuto più confusione, questo sì, ma non mobilità.
Nel merito, penso che in quella stagione che portò al varo e allo sviluppo del centro-sinistra, si riuscì a governare con intelligenza e flessibilità i grandi processi di una società in mutamento.
Tuttavia, se la Dc trova le ragioni e gli argomenti per aprire la nuova fase della collaborazione con i socialisti, forse lo si deve ancora una volta a De Gasperi. Fu lui infatti a definire la Dc un "partito di centro che guarda a sinistra", anche se alcuni vogliono oggi intendere questa espressione in senso restrittivo: il centro degasperiano, secondo questa lettura, guarderebbe a sinistra non in termini di alleanze politiche, ma di preferenze e scelte sociali. Limitarsi a questo, non è troppo poco?
Mah, io credo che siano state operate molte strumentalizzazioni a proposito di questa frase. Se torniamo all'ambiente che segna la formazione e lo sviluppo della personalità di De Gasperi, troviamo innanzi tutto che il Ppi non è il partito della conservazione, ma piuttosto della trasformazione. Il popolarismo entra in competizione con il socialismo, poiché entrambi affrontano le medesime problematiche offrendo, tuttavia, risposte in gran parte diverse. Il sorgere della nuova formazione strurziana corrisponde alla volontà di dare spazio al disegno di un nuovo solidarismo, rispettoso delle libertà personali e, nel medesimo tempo, legato alla prospettiva di una più concreta giustizia sociale.
De Gasperi, quando arriva al governo, interpreta questo disegno di promozione dello sviluppo e del cambiamento in un'ottica che, con qualche approssimazione, potremmo certamente definire "di sinistra". La lotta per il riscatto del Mezzogiorno, la liberalizzazione dell'economia, l'avvio della riforma tributaria, la diffusione dell'istruzione di massa, tutte queste scelte riformatrici - compiute per altro in appena cinque anni - erano di per sé contro le posizioni della destra (sia esterna che interna al partito). Ma restando fermo nella difesa delle libertà democratiche, non si sottrae alla battaglia contro il "bolscevismo" della sinistra. Ecco, paradossalmente, si potrebbe dire che De Gasperi fosse incline a guardare tanto a sinistra quanto a destra, essendo la sua preoccupazione maggiore quella di raggiungere e preservare un equilibrio politico utile alla salvaguardia e al consolidamento della democrazia. Mi rendo conto, però, che è difficile formulare una simile teoria.
Per quanto è dato sapere, De Gasperi non era pregiudizialmente contrario a un'alleanza con il partito socialista, né con quello comunista. Con essi, per una breve e intensa fase, fece parte dello stesso governo. Come abbiamo visto, quando ruppe il tripartito lo fece solo per questioni inerenti all'equilibrio internazionale. La fermezza dei principi non equivaleva, nella personalità di De Gasperi, a una preclusione di tipo ideologico. Poteva immaginare sviluppi futuri, ma non commetteva l'errore di bruciare i tempi. La gradualità, o se vogliamo il realismo, era un tratto indelebile della politica degasperiana.
Un tratto che si è riverberato, successivamente, nello stile di governo della classe dirigente democristiana. Non è così?
Sì, è proprio così. Anche se, nei miei giovanili approcci politici, provavo un senso di fastidio per quelli che ai miei occhi apparivano come ritardi ingiustificati.
Mi viene in mente che quando ero segretario provinciale non capivo perché non si potesse realizzare in tempi stretti l'alleanza con i socialisti. Nel corso di un'assemblea, attaccai Moro per l'eccessiva lentezza che caratterizzava l'azione della sua segreteria politica. Bene, dopo poco mi mandò a chiamare e mi diede una indimenticabile lezione di politica. Il suo ragionamento fu diretto a dimostrare che, perché certe alleanze potessero essere fatte, si dovevano realizzare tre condizioni principali. In primo luogo, sul piano della politica internazionale si doveva spiegare agli alleati che l'accordo con i socialisti non avrebbe modificato la posizione del nostro Paese nel contesto occidentale. Aggiunse che questa era, tutto sommato, una cosa abbastanza semplice perché già aveva chiesto ai socialisti di accettare il rispetto degli accordi politico-militari. In secondo luogo, era necessario spiegare al mondo cattolico che l'ispirazione cristiana della Dc non sarebbe venuta meno. Osservò che questo tentativo avrebbe comportato una fatica maggiore, perché "ci sono alcuni che capiscono e altri no, quindi sta nella nostra capacità.